Il mancato rispetto delle distanze legale impedisce il rilascio del condono edilizio?

Il mancato rispetto delle distanze legali tra diverse costruzioni non è ostativo al rilascio del condono edilizio da parte della Pubblica Amministrazione.
Il condono edilizio attiene, infatti, al rapporto pubblicistico tra il comune e il richiedente, nel senso che viene sanata la violazione delle disposizioni di carattere urbanistico-edilizio nei soli rapporti tra l’amministrazione e il richiedente.
Resta sempre salva la possibilità dei proprietari limitrofi, che fossero danneggiati dalla violazione, di far valere il diritto al rispetto delle distanze davanti al giudice civile ordinario, a tutela del diritto di proprietà.

Così ha deciso il Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4494

Cassazione: anche se è escluso il mobbing può esserci il reato di lesioni personali a carico del datore di lavoro

Con la recentissima sentenza n. 28603 del 3 luglio 2013 la Suprema Corte ha confermato la responsabilità penale del datore di lavoro, con conseguente obbligo a risarcire il danno patito dal lavoratore dipendente, per avere il primo dequalificato e sottoposto a trattamenti degradanti la vittima. Nelle grandi aziende, precisano i giudici di legittimità, può risultare piuttosto complicato parlare di mobbing: infatti, si tratta di fattispecie costruita a livello di giurisprudenza tramite il rinvio all’articolo 572 del codice penale, norma che incrimina il reato di maltrattamenti in famiglia. Per definizione, i maltrattamenti in famiglia possono esservi solo in luoghi caratterizzati dal tratto della familiarità, che ricorre solo nei piccoli contesti lavorativi, per esempio nel rapporto che lega il collaboratore domestico alla famiglia presso cui è impiegato.

Ma ciò non toglie che, escluso il delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi comunque altre ipotesi di reato: nel caso di specie il lavoratore era stato “messo nell’angolo” dai suoi superiori: in un primo tempo ricopriva un incarico di responsabilità, poi era stato “preso di mira” ed emarginato progressivamente fino ad essere fisicamente “confinato” a lavorare in uno sgabuzzino spoglio e sporco. La vittima aveva patito la situazione a tal punto da ammalarsi, e gli era stato diagnosticato un disturbo dell’adattamento. I giudici hanno ritenuto che il caso di specie integrasse una ipotesi di “straining”, una particolare forma di persecuzione sul lavoro che si risolve nel mettere sempre in condizione di inferiorità il dipendente. Una volta escluso il reato ex art. 572 del codice penale viene configurato il reato di lesioni personali volontarie e il datore condannato a risarcire il danno patito.

Il caso Pro Patria – Milan

Calcio e razzismo: tra sport, etica e giustizia

Il fatto:

Giovedì 3 gennaio 2013, la partita amichevole tra il Milan e la Pro Patria è stata interrotta a causa del ritiro dal campo del Milan dopo che una minoranza di tifosi della Pro Patria hanno rivolto ai giocatori di colore del Milan insulti razzisti. I rossoneri hanno così deciso di non tornare in campo. Il tecnico dei rossoneri, Massimiliano Allegri, ha ritenuto giustificata e legittima la scelta di abbandonare il campo: “Ritirarci era la scelta giusta di fronte ad una cosa come questa. Bisogna smetterla con questi gesti incivili. L’Italia, il Paese deve migliorare e diventare più educato e più intelligente“.

Il presidente della Pro Patria, Pietro Vavassori, ha dichiarato a sua volta: “non sono ultrà della Pro Patria, non possiamo intervenire sugli spalti, questo è un compito delle forze dell’ordine“. E ancora:  “questi signori vanno isolati ma non sono persone che vediamo allo stadio. Sono amareggiato, non ho parole. Purtroppo le società sono impotenti, non possono fare nulla“.

 

Una breve considerazione “etica” del fatto:

Come ha ben detto il Presidente Abete, quello del recupero dei valori (sportivi, etici, morali, umani) deve essere necessariamente uno degli obiettivi prioritari della Federazione e del CONI. Un obiettivo che, si badi bene, non è e non può essere solo italiano o del calcio, ma riguarda tutto lo sport, a livello europeo e mondiale, la cui soluzione deve passare necessariamente dalla formazione etica dei giovani atleti, così come attraverso una più rigorosa applicazione delle norme sanzionatorie, così da tenere fuori dagli impianti sportivi simili fatti e simili persone.

Certo, agli occhi dei più attenti osservatori sportivi, non sfuggirà però il fatto che, ad ogni competizione, accade di sentire insulti, talora pesanti ed eccessivi, rivolti di volta in volta all’arbitro (o a un suo assistente), ai giocatori o ai dirigenti delle squadre, allenatore in testa. Insulti che, purtroppo, tendono a colpire spesso e volentieri anche familiari e congiunti di costoro. Certo qualcuno dirà che da sempre ciò “fa parte” del mondo dello sport, dando così una sorta di preventiva “assoluzione” alle affermazioni vergognose talora rivolte a persone del tutto estranee alle vicende sportive.

Ed allora, se è giusto e doveroso perseguire i cori razzisti, viene spontaneo chiedersi se non sia giusto perseguire altresì gli altri cori, quelli a volte più pesanti ed inaccettabili che, ormai, non fanno più notizia. Certo il rischio è poi quello di rendere ingestibile ogni evento sportivo se non gli stessi campionati, così come quello di “mettere nelle mani” di qualcuno, magari non del tutto “spontaneo”, le competizioni ed i loro esiti. Però è un problema che a mio avviso occorre porsi, da un punto di vista giuridico, per non dover, come troppo spesso accade nello sport, valutare e giudicare i fatti con i proverbiali “due pesi e due misure”.

Da un punto di vista morale e civile beh, è un’altra questione, dato che dovremmo parlare di educazione e senso civico, ma rischiamo di aprire un discorso lungo e complicato.

I risvolti giuridici del fatto: fra giustizia sportiva e norme di ordine pubblico

Partiamo dal secondo aspetto, quello dell’ordine pubblico. E’ stata un’azione legittima quella dell’arbitro di sospendere la partita? La risposta, da un punto di vista giuridico, è no!

Il Ministero degli Interni ha chiarito che, la titolarità per l’interruzione di una competizione sportiva, spetta al responsabile dell’ordine pubblico. Quindi, l’arbitro non può prendere autonomamente alcuna decisione sul punto ma, invece, deve consultarsi con il responsabile della sicurezza pubblica e con gli altri operatori previsti per il tipo di competizione. Poi, dopo aver proposto la sospensione, se il titolare del “potere” concorda, si procederà in tal senso. Ma solo se concorda, altrimenti si corre il rischio che una decisione affrettata non consenta alle forze dell’ordine di predisporre quanto necessario ad un regolare deflusso dei tifosi dall’impianto sportivo. Oltre al rischio di improvvisi e, magari, inaspettati tafferugli.

Se è vero che quanto accaduto a Busto Arsizio non è stata una bella immagine per lo sport e per il calcio italiano, è anche vero che né i giocatori coinvolti hanno dato prova di quel minimo di “freddezza” che ci si aspetta da professionisti di quel livello (basti pensare al gesto – assolutamente comprensibile – ma sconsiderato di scagliare la palla contro il pubblico: proviamo ad immaginare cosa poteva succedere se vi fossero stati centinaia o migliaia di scalmanati desiderosi solo di creare incidenti…!), né tantomeno l’arbitro ha agito con professionalità, avendo travalicato i propri compiti, mettendo così potenzialmente a rischio la gestione dell’ordine pubblico dentro e fuori lo stadio. E poco importa se era solo un’amichevole….

Da un punto di vista del diritto e della giustizia sportiva, invece, la cosa è – se si ragiona in modo tecnico e distaccato – per alcuni versi chiara e per altri, specie in relazione agli specifici fatti, molto più complicata di quanto si possa pensare.

Come ha molto saggiamente fatto notare il Presidente Abete: “le penalizzazioni per reiterati episodi (come quelli dei cori razzisti) sono già previste dall’ordinamento sportivo, ma bisogna mettersi d’accordo su come gestire la responsabilità oggettiva. In alcune situazioni si vuole che venga azzerata, ma poi si chiede la retrocessione a fronte di comportamenti di 30-40 persone, così è difficile fare un ragionamento serio. Su questo bisogna fare chiarezza”.

Proprio così, altrimenti come ho detto si ritorna sempre al “due pesi e due misure” tanto “caro” al mondo dello sport e, in molti casi, ai suoi Organi di giustizia sportiva.

Dal punto di vista disciplinare, in casi simili a quello di Busto Arsizio, normalmente l’aspetto più grave, dal punto di vista giuridico, dovrebbe essere quello di una squadra che, a torto o a ragione, decide di abbandonare il campo e, quindi, la competizione, senza che vi sia stata in tal senso una decisione del direttore di gara e del responsabile dell’ordine pubblico.

Invece nulla, la cosa è passata come assolutamente normale….mentre normale non è, e non deve essere!

Nei confronti della squadra padrona di casa – nel nostro caso la Pro Patria – cosa prevede in simili casi il CGS (Codice di Giustizia Sportiva) della FIGC?

La norma applicabile al caso accaduto a Busto Arsizio è l’articolo 11 del Codice di Giustizia Sportiva della FIGC, il quale considera comportamento discriminatorio, sanzionabile in sede disciplinare, “ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori“.

Il successivo comma 3 prevede, poi, che le società siano responsabili per l’introduzione o l’esibizione negli impianti sportivi da parte dei propri sostenitori di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni di discriminazione e sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione espressiva di discriminazione“.

Pertanto, nel caso in esame, il giudice sportivo potrebbe comminare un’ammenda oscillante tra i 10 mila ed i 50 mila Euro, così come previsto per le società di Lega Pro.

Alla luce della normativa vigente (ma anche, penso io, degli orientamenti degli organismi federali ed internazionali del calcio), il Giudice Sportivo di Lega Pro però, dopo aver rilevato che il comportamento dei sostenitori della Pro Patria “appare di particolare gravità in quanto qualificabile come manifestazione di discriminazione razziale” ha deciso di comminare non una ammenda, ma bensì la più grave sanzione “consistente nell’obbligo di disputare una gara effettiva di Campionato a porte chiuse“. Ciò in base al comportamento recidivo della società come previsto dall’art. 11, comma 3, tenuto conto che già nell’ottobre del 2012 la stessa Società era stata sanzionata per analoghi comportamenti con un’ammenda.

Una “sentenza” che non deve stupire, in quanto in linea con  la posizione della FIFA, la quale ha deciso di adottare provvedimenti analoghi in occasione di recenti episodi di razzismo durante partite le squadre nazionali di Ungheria e Bulgaria, le quali disputeranno una gara a porte chiuse a causa delle intemperanze dei propri supporter con l’ulteriore “avvertimento”, da parte della FIFA, di possibili e più gravi sanzioni in caso di recidiva.