Cassazione: anche se è escluso il mobbing può esserci il reato di lesioni personali a carico del datore di lavoro

Con la recentissima sentenza n. 28603 del 3 luglio 2013 la Suprema Corte ha confermato la responsabilità penale del datore di lavoro, con conseguente obbligo a risarcire il danno patito dal lavoratore dipendente, per avere il primo dequalificato e sottoposto a trattamenti degradanti la vittima. Nelle grandi aziende, precisano i giudici di legittimità, può risultare piuttosto complicato parlare di mobbing: infatti, si tratta di fattispecie costruita a livello di giurisprudenza tramite il rinvio all’articolo 572 del codice penale, norma che incrimina il reato di maltrattamenti in famiglia. Per definizione, i maltrattamenti in famiglia possono esservi solo in luoghi caratterizzati dal tratto della familiarità, che ricorre solo nei piccoli contesti lavorativi, per esempio nel rapporto che lega il collaboratore domestico alla famiglia presso cui è impiegato.

Ma ciò non toglie che, escluso il delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi comunque altre ipotesi di reato: nel caso di specie il lavoratore era stato “messo nell’angolo” dai suoi superiori: in un primo tempo ricopriva un incarico di responsabilità, poi era stato “preso di mira” ed emarginato progressivamente fino ad essere fisicamente “confinato” a lavorare in uno sgabuzzino spoglio e sporco. La vittima aveva patito la situazione a tal punto da ammalarsi, e gli era stato diagnosticato un disturbo dell’adattamento. I giudici hanno ritenuto che il caso di specie integrasse una ipotesi di “straining”, una particolare forma di persecuzione sul lavoro che si risolve nel mettere sempre in condizione di inferiorità il dipendente. Una volta escluso il reato ex art. 572 del codice penale viene configurato il reato di lesioni personali volontarie e il datore condannato a risarcire il danno patito.

Il lavoratore cambia tragitto e si fa male: no all’infortunio in itinere

Con la sentenza 2642/2012 – depositata il 22/02/2012 – la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha escluso l’indennizzo del danno patito da un dipendente a seguito di un infortunio che lo stesso aveva subito a causa di un incidente stradale, che lo aveva visto protagonista sulla strada di ritorno dal luogo di lavoro alla propria abitazione.
Nel caso di specie, il dipendente, aveva chiesto ed ottenuto un permesso orario retribuito al fine di rientrare a casa in anticipo per il pranzo, anziché rientrare in azienda, successivamente all’effettuazione di una visita medica presso l’ASL locale richiesta dal datore di lavoro.
La domanda di indennizzo del danno subito veniva accolta in primo grado, ma la sentenza veniva riformata in secondo grado.
Infatti, secondo la Corte d’Appello, la scelta del dipendente di fare ritorno alla propria abitazione, invece di ritornare in azienda, così modificando il tragitto che lo avrebbe ricondotto dalla ASL sul luogo di lavoro, era idonea ad integrare una circostanza idonea ad interrompere il nesso causale tra il suo tragitto verso la propria abitazione e l’occasione di lavoro.
Le ore di permesso fruite dal lavoratore successivamente all’effettuazione della visita medica, gli avevano consentito di compiere in tale intervallo di tempo un’attività non connessa con lo svolgimento della propria attività lavorativa.
Conseguentemente, le ore successive alla visita presso la ASL non erano da considerare in connessione con l’attività lavorativa, diversamente dal tempo antecedente all’effettuazione degli accertamenti sanitari.
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, con la citata sentenza, nel confermare il ragionamento logico-giuridico effettuato dal giudice di Appello ha affermato che la fruizione del permesso orario, essendo volto a soddisfare un’esigenza personale, quella di rientrare nell’abitazione per il pranzo, non può essere ricondotta nell’ambito della “occasione di lavoro”, requisito che costituisce il presupposto indispensabile ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere.
Secondo la Corte, infatti, il limite della copertura assicurativa da parte dell’INAIL è costituito esclusivamente dal “rischio elettivo”, intendendosi per tale quello che, estraneo e non attinente alla attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.
Pertanto, il giudice di legittimità, avendo riconosciuto che, nel caso di specie, la fruizione del permesso per ritornare presso la propria abitazione non potrebbe giustificarsi in altro modo che con l’esigenza di soddisfare esigenze meramente personali, non connesse affatto con l’attività lavorativa, configurando il comportamento tenuto dallo stesso in termini di rischio elettivo, ha escluso l’indennizzo da parte dell’INAIL per l’infortunio occorso.

Ammesso l’utilizzo di un’agenzia investigativa per controllare un dipendente

Le disposizioni dell’art. 2 dello Statuto dei lavoratori, approvato con L. 300/1970, nel limitare la sfera d’intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non gli impediscono di ricorrere ad agenzie investigative, a condizione che l’intervento delle stesse non trasbordi nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria. Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13789 depositata il 23 giugno 2001, ritenendo legittima l’intimazione di licenziamento di un dipendente addetto alla cassa sulla base delle risultanze di un’attività investigativa privata (utilizzate, nella fattispecie, dal datore al fine di provare in giudizio l’inosservanza delle procedure di cassa e la mancata registrazione fiscale delle relative operazioni).

La riserva, disposta dalla Statuto dei lavoratori in capo al datore di lavoro e ai suoi collaboratori dell’attività di vigilanza non preclude, ad avviso della Suprema Corte, l’ammissibilità di un intervento di controllo di un’agenzia investigativa, che non investe la normale attività lavorativa, bensì quelle prestazioni del dipendente che integrano violazioni di obblighi extracontrattuali penalmente rilevanti,

Viene pertanto ribadito l’indirizzo già espresso in precedenza di ritenere giustificato la tipologia di intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.