Il lavoratore cambia tragitto e si fa male: no all’infortunio in itinere

Con la sentenza 2642/2012 – depositata il 22/02/2012 – la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha escluso l’indennizzo del danno patito da un dipendente a seguito di un infortunio che lo stesso aveva subito a causa di un incidente stradale, che lo aveva visto protagonista sulla strada di ritorno dal luogo di lavoro alla propria abitazione.
Nel caso di specie, il dipendente, aveva chiesto ed ottenuto un permesso orario retribuito al fine di rientrare a casa in anticipo per il pranzo, anziché rientrare in azienda, successivamente all’effettuazione di una visita medica presso l’ASL locale richiesta dal datore di lavoro.
La domanda di indennizzo del danno subito veniva accolta in primo grado, ma la sentenza veniva riformata in secondo grado.
Infatti, secondo la Corte d’Appello, la scelta del dipendente di fare ritorno alla propria abitazione, invece di ritornare in azienda, così modificando il tragitto che lo avrebbe ricondotto dalla ASL sul luogo di lavoro, era idonea ad integrare una circostanza idonea ad interrompere il nesso causale tra il suo tragitto verso la propria abitazione e l’occasione di lavoro.
Le ore di permesso fruite dal lavoratore successivamente all’effettuazione della visita medica, gli avevano consentito di compiere in tale intervallo di tempo un’attività non connessa con lo svolgimento della propria attività lavorativa.
Conseguentemente, le ore successive alla visita presso la ASL non erano da considerare in connessione con l’attività lavorativa, diversamente dal tempo antecedente all’effettuazione degli accertamenti sanitari.
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, con la citata sentenza, nel confermare il ragionamento logico-giuridico effettuato dal giudice di Appello ha affermato che la fruizione del permesso orario, essendo volto a soddisfare un’esigenza personale, quella di rientrare nell’abitazione per il pranzo, non può essere ricondotta nell’ambito della “occasione di lavoro”, requisito che costituisce il presupposto indispensabile ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere.
Secondo la Corte, infatti, il limite della copertura assicurativa da parte dell’INAIL è costituito esclusivamente dal “rischio elettivo”, intendendosi per tale quello che, estraneo e non attinente alla attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.
Pertanto, il giudice di legittimità, avendo riconosciuto che, nel caso di specie, la fruizione del permesso per ritornare presso la propria abitazione non potrebbe giustificarsi in altro modo che con l’esigenza di soddisfare esigenze meramente personali, non connesse affatto con l’attività lavorativa, configurando il comportamento tenuto dallo stesso in termini di rischio elettivo, ha escluso l’indennizzo da parte dell’INAIL per l’infortunio occorso.

Danno da ritardata restituzione dell’immobile locato

 

 

 

 

Con sentenza n. 12962 del 14 giugno 2011, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla risarcibilità del danno da ritardata restituzione dell’immobile locato.

L’articolo 1591 del codice civile prevede che il conduttore in mora nella restituzione della cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno.

Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che il maggior danno presuppone unaeffettiva lesione del patrimonio del locatore, che si verifica quando non è possibile dare in locazione il bene per un canone più elevato.

Tale danno, specifica la Corte, ha natura contrattuale, e deve essere concretamenteprovato dal locatore; il semplice ritardo nella riconsegna del bene può dare luogo soltanto ad una condanna generica al risarcimento; in sede di liquidazione deve, infatti, essere provata l’effettiva lesione del patrimonio del locatore attraverso dati relativi alla condizione dell’immobile, alla sua ubicazione e alla possibilità della sua nuova utilizzazione con riferimento in particolare all’esistenza di soggetti che vogliano effettivamente assicurarsene il godimento dietro corrispettivo.

In tal senso la giurisprudenza ha sempre ritenuto che il  diritto al risarcimento del maggior danno non sorga in via automatica, bensì necessiti della prova specifica di un’effettiva lesione del patrimonio del locatore per non avere potuto utilizzare il bene per tutto il tempo in cui l’inquilino si è rifiutato di effettuare la riconsegna; il locatore ha quindi l’onere, laddove voglia ottenere il risarcimento per il maggior danno, di provare l’esistenza di determinate proposte di locazione o di acquisto dell’immobile da parte di soggetti realmente interessati.

Il pedone cade nella buca del marciapiede coperta di acqua: deve essere risarcito

Con la sentenza n. 11430 del maggio 2011 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla responsabilità di una Pubblica amministrazione da cose in custodia, per i casi piuttosto frequenti in cui i pedoni cadano nelle buche stradali e riportino lesioni.

Nel caso giunto all’attenzione della Corte, una turista aveva richiesto il risarcimento danni nei confronti di un Comune per le lesioni derivate dalla caduta in una buca piena d’acqua nella pavimentazione del marciapiede.

Nel corso dei precedenti giudizi di merito, dopo avere premesso che la presenza di una buca sul fondo stradale giustifica l’addebito di responsabilità in capo al Comune per difetto di manutenzione e, altresì il nesso causale fra la situazione della strada e l’infortunio occorso al pedone, era stata poi qualificata come caso fortuito la circostanza che la buca fosse ricoperta dall’acqua e non visibile quindi dall’infortunata, ciò sul rilievo che si trattava di evento estemporaneo, nei confronti del quale il Comune non ha avuto la possibilità di intervenire tempestivamente. La Corte, definendo la sentenza illogica e contraddittoria, ha quindi accolto il ricorso della donna spiegando che erroneamente «la sentenza impugnata ha cioè considerata come causa idonea ad esimere l’ente pubblico da responsabilità una circostanza di fatto che ha invece aggravato gli effetti del vizio di manutenzione, che senza quel vizio non avrebbe causato il danno e che avrebbe potuto valere ad escludere non la responsabilità del Comune, bensì un eventuale concorso di colpa dell’infortunata, per non avere visto tempestivamente la buca». In sostanza, secondo la Suprema Corte di Cassazione, la Corte di Appello «ha confuso un evento (del tutto normale e largamente prevedibile) che ha contribuito a causare il danno (la pioggia che, nascondendo le asperità del suolo, le ha rese ancora più insidiose) con una causa di interruzione del nesso causale, quasi che si trattasse di evento esterno e non controllabile, di per sé solo sufficiente a produrre il danno».