Casa coniugale: spetta alla moglie solo se convive con i figli

 

 

 

 

L’assegnazione della casa coniugale non può essere considerata quale parte complementare dell’assegno di mantenimento: è quanto stabilito dalla Prima Sezione civile della Suprema Corte di Cassazione con  la sentenza n. 18992/2011.

Dunque, secondo l’opinione dei giudici di legittimità, non è scontato che la casa coniugale spetti all’ex moglie, se al momento del divorzio la coppia non ha figli. Nel caso oggetto della sentenza, la donna prima della pronuncia del divorzio aveva perduto l’unico figlio, perciò i giudici di Primo grado le avevano riconosciuto soltanto l’assegno di mantenimento, mentre la casa coniugale doveva rimanere al marito, in quanto di sua esclusiva proprietà.

I supremi giudici hanno poi precisato che, “in materia di divorzio, in tema di assegnazione della casa familiare la norma non attribuisce al giudice il potere di disporre l’assegnazione a favore del coniuge che non ha alcun diritto sull’immobile e che non è affidatario di prole minorenne o convivente con figli maggiorenni non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri”.

Tale assegnazione, si legge nel testo della sentenza, non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno di divorzio, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole.

Danno da ritardata restituzione dell’immobile locato

 

 

 

 

Con sentenza n. 12962 del 14 giugno 2011, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla risarcibilità del danno da ritardata restituzione dell’immobile locato.

L’articolo 1591 del codice civile prevede che il conduttore in mora nella restituzione della cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno.

Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che il maggior danno presuppone unaeffettiva lesione del patrimonio del locatore, che si verifica quando non è possibile dare in locazione il bene per un canone più elevato.

Tale danno, specifica la Corte, ha natura contrattuale, e deve essere concretamenteprovato dal locatore; il semplice ritardo nella riconsegna del bene può dare luogo soltanto ad una condanna generica al risarcimento; in sede di liquidazione deve, infatti, essere provata l’effettiva lesione del patrimonio del locatore attraverso dati relativi alla condizione dell’immobile, alla sua ubicazione e alla possibilità della sua nuova utilizzazione con riferimento in particolare all’esistenza di soggetti che vogliano effettivamente assicurarsene il godimento dietro corrispettivo.

In tal senso la giurisprudenza ha sempre ritenuto che il  diritto al risarcimento del maggior danno non sorga in via automatica, bensì necessiti della prova specifica di un’effettiva lesione del patrimonio del locatore per non avere potuto utilizzare il bene per tutto il tempo in cui l’inquilino si è rifiutato di effettuare la riconsegna; il locatore ha quindi l’onere, laddove voglia ottenere il risarcimento per il maggior danno, di provare l’esistenza di determinate proposte di locazione o di acquisto dell’immobile da parte di soggetti realmente interessati.

Il pedone cade nella buca del marciapiede coperta di acqua: deve essere risarcito

Con la sentenza n. 11430 del maggio 2011 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla responsabilità di una Pubblica amministrazione da cose in custodia, per i casi piuttosto frequenti in cui i pedoni cadano nelle buche stradali e riportino lesioni.

Nel caso giunto all’attenzione della Corte, una turista aveva richiesto il risarcimento danni nei confronti di un Comune per le lesioni derivate dalla caduta in una buca piena d’acqua nella pavimentazione del marciapiede.

Nel corso dei precedenti giudizi di merito, dopo avere premesso che la presenza di una buca sul fondo stradale giustifica l’addebito di responsabilità in capo al Comune per difetto di manutenzione e, altresì il nesso causale fra la situazione della strada e l’infortunio occorso al pedone, era stata poi qualificata come caso fortuito la circostanza che la buca fosse ricoperta dall’acqua e non visibile quindi dall’infortunata, ciò sul rilievo che si trattava di evento estemporaneo, nei confronti del quale il Comune non ha avuto la possibilità di intervenire tempestivamente. La Corte, definendo la sentenza illogica e contraddittoria, ha quindi accolto il ricorso della donna spiegando che erroneamente «la sentenza impugnata ha cioè considerata come causa idonea ad esimere l’ente pubblico da responsabilità una circostanza di fatto che ha invece aggravato gli effetti del vizio di manutenzione, che senza quel vizio non avrebbe causato il danno e che avrebbe potuto valere ad escludere non la responsabilità del Comune, bensì un eventuale concorso di colpa dell’infortunata, per non avere visto tempestivamente la buca». In sostanza, secondo la Suprema Corte di Cassazione, la Corte di Appello «ha confuso un evento (del tutto normale e largamente prevedibile) che ha contribuito a causare il danno (la pioggia che, nascondendo le asperità del suolo, le ha rese ancora più insidiose) con una causa di interruzione del nesso causale, quasi che si trattasse di evento esterno e non controllabile, di per sé solo sufficiente a produrre il danno».